Breve ripasso di un carnevale passato
A Carnevale travestirsi, mascherarsi, bruciare fantocci, ricreare un mondo “alla rovescia” significa rievocare arcani rituali pagani, legati ai cicli agrari e alla natura, nei quali si faceva uso di maschere per allontanare gli spiriti maligni e celebrare la rinascita della vita, con la distruzione del vecchio. In Grecia, durante le feste dionisiache, personaggi mascherati seguivano il dio Dioniso che arrivava su un carro. A Roma nel corso delle feste lupercali i partecipanti si coprivano con pelli di lupo. Tra la fine di febbraio e i primi di marzo, in onore del dio Marte, si svolgevano corse di cavalli e cerimonie carnascialesche. Perso il carattere magico e rituale, in epoca cristiana, queste usanze hanno assunto l’aspetto di divertimento popolare e, nei periodi medievale e rinascimentale nelle corti europee, tali riti hanno assunto l’aspetto di feste legate al teatro, alla musica e alla danza. La parola carnevale ha dato adito a diverse interpretazioni secondo le quali deriverebbe da carni vale, addio alla carne, o carne levare, togliere la carne, espressioni che si riferiscono alle feste durante le quali si consumava la carne prima della Quaresima; potrebbe anche derivare da carni levamen, cioè sollievo della carne con riferimento alla libertà, concessa una volta l’anno, di dare libero sfogo agli istinti repressi. Il carnevale in alcune località siciliane, in passato, era caratterizzato dal corteo che seguiva il nanno e la nanna, allegoriche rappresentazioni dell’inverno che se va via con tutti i dolori e le disgrazie che l’hanno accompagnato. Alla fine dei festeggiamenti i fantocci venivano bruciati come auspicio dell’arrivo della primavera e della Pasqua, portatrici di bene e di grazia. A Trapani e provincia c’è sempre stata l’usanza del travestimento con maschere e il rito di lanciare coriandoli (pittiddi). Mentre il popolo festeggiava per le strade o in casa, la borghesia e i nobili organizzavano veglioni in maschera nei lussuosi palazzi. I popolani chiamavano il veglione lu sonu, perché si ballava al suono di due strumenti: lo zufolo e la chitarra o il cembalo. Al sonu si andava senza maschera, in modo da essere riconosciuti dal bastuneri (il caposala che teneva un bastone in mano); chi non ballava passava il tempo mangiando scacciu: fave, ceci e mandorle abbrustolite. Il pranzo consisteva nel primo piatto di busiati (o maccarruni di zito), conditi con sugo di stufato di carne di maiale e insaporiti con saliato, pecorino grattugiato con la rattalora. Per secondo erano di rito lo stufato di maiale, la salsiccia e u sangunazzu, ossia sangue di maiale rappreso, posto in un budello dello stesso animale, con uva passa. Con lo stesso sangue si ricavava anche un dolce, amalgamandolo con zucchero, mandorle tostate e tritate, cannella in polvere, e facendolo addensare; per decorazione si usava cospargerlo con i diavolicchi, minuscole palline di zucchero, multicolori. Il pranzo si concludeva con cannoli a volontà: i beddi cannoli di Carnalivari. Come tutte le altre regioni d’Italia anche la Sicilia aveva una sua maschera, quella di Peppe Nappa, nata tra Sei e Settecento con la “Commedia dell’arte”. Si tratta di un personaggio beffardo, pigro ma capace di effettuare salti e danze acrobatiche pur di procurarsi i cibi e le leccornie di cui è ghiottissimo. Varie città siciliane si contendono la sua nascita ma si crede che sia stata Messina ad avere dato i natali: veste un abito ampio di colore azzurro, con un berretto di feltro bianco o grigio sopra la calotta bianca. La maschera più famosa in Italia è sicuramente quella di Arlecchino, originaria di Bergamo e molto conosciuta per il vestito di tanti colori, secondo la tradizione, realizzato con gli avanzi di stoffa dei costumi degli amici di Arlecchino che, essendo povero, non aveva un abito per il Carnevale. Oggi purtroppo la tradizione del Carnevale è andata via via scemando lasciando il posto a sfilate di carri allegorici e a maschere spesso legate a personaggi dello spettacolo o ad eroi dei fumetti e dei cartoni. Lina Novara