Trapani, com'era una volta la Via Giudecca, nel centro storico di Trapani. Ricordi di una bambina diventata donna.
Cammino nella trafficata via XXX Gennaio, un tiepido pomeriggio d’autunno, mentre il vento mi spettina i pensieri.
All’orizzonte, davanti a me, una argentea striscia di mare.
Giunta all’angolo del cinerino Palazzo Liberty, delle luci scintillanti attirano la mia attenzione.
Sono le luci di un ristorantino. Sopra l’insegna, la targa della strada che si apre alla mia destra: Via Giudecca, “ ’a Jureca”! Come veniva chiamata dagli abitanti.
Mi fermo e guardo la stradina leggermente tortuosa, la “mia” strada!
Era stata l’arteria principale del quartiere arabo-ebraico, prima della cacciata degli ebrei nel 1492 dai possedimenti spagnoli.
Una forza irresistibile mi spinge ad incamminarmi in quella direzione; una fila di edifici a tre piani, quasi tutti balconati, che la delimita da ambo i lati, mi viene incontro e mi riconosce.
Ad un tratto le luci all’angolo si trasformano, lì non ci sta più il ristorantino, ma una pasticceria.
Davanti ad essa una bimba sui 2 anni con il cappottino rosso e il berrettino bianco dà la mano al nonno, dal cipiglio austero, il quale le chiede:
“Cosa vuoi il gelato o il “tricotto”?
“Tutti e due” risponde la piccina.
Il nonno sorride e la spinge dolcemente dentro il negozio.
Un soffice aroma di vaniglia avvolge i due; dietro al bancone un giovane uomo, dagli occhi chiari e dai capelli castani ondulati, col grembiule bianco, sistema i “tabbarè” ricolmi di “tricotti” e “viscotta di ziti”.
“Buon giorno Mario” dice il nonno, “Buon giorno don Pietro” esclama quello.
“ Chi fa’, ci lu pripari un cono di gelato al gelsomino alla picciriddra? Nicu però, di 5 lire. Poi, mi dai magari un tricotto, grazie.” “Come no?” risponde ‘u zu’ Mario.
Esco soddisfatta con il gelato in mano e di fronte a me, all’angolo destro, la merceria di don Matteo, affollata di donne che cercano pizzi e spagnolette.
A seguire la bottega della “Signurina a scupara”, chiamata così perché intrecciava scope con le foglie essiccate di erica, e la taverna du zù Pepè “ ‘u Immurutu”, appellato in questo modo per via della gobba, detta “immu” in dialetto.
Intanto la strada che prima mi era parsa buia e silente, si anima.
Dalla striscia sinuosa di cielo azzurro che la sovrasta, una lama di sole penetra e divide in due il selciato, dipingendo di varie sfumature i prospetti delle case, spesso scorticati. Voci e rumori m’investono, ci sono tanti passanti, alcuni dei quali mi salutano agitando la mano.
Lascio quei due davanti la pasticceria e mi addentro un po’.
Sulla sinistra si apre un vicoletto che prima era stato una viuzza dalle basole di pietra ferite e dissestate, che girava dietro al Palazzo Liberty: la via Cortigliazzo.
Adesso di questa stradina rimane solo il primo tratto, perché tutti gli edifici del lato sinistro furono abbattuti, insieme ad altri caseggiati adiacenti, per dare luogo ad un’arteria più grande. Rimane solo la parte destra contigua alla via Giudecca. Di questa parte sopravvissuta, riconosco il primo portone. Lì abitavano i fratelli Catania, uno dei quali divenne poi sindaco della Città negli anni ’70.
Innanzi ad una saracinesca chiusa, all’angolo tra la via Cortigliazzo e la via Giudecca, un profumo di “salatume” mi assale: la bottega di don Turiddru Corso.
Vedo una stanza illuminata da una sola lampadina, ma fornitissima, profumata di mortadella, salame, acciughe e tonnina salata. Davanti la porta, sacchi di juta pieni di cipolle, frutta e verdura ed, in alto, il pomodoro “siccagno” pendere a grappoli dallo stipite. Era il supermercato di tutta la comunità della “Jureca”. Dietro il bancone don Turiddru che serve i clienti con la sua tonaca da lavoro blu.
Più avanti sulla destra la macelleria di carne equina Bevilacqua, con i quarti dei cavalli appesi al gancio davanti la porta, perché dissanguassero e la bottega dell’acquaiola che vendeva pure il latte.
Sento la voce della mamma la mattina presto dirmi “Va’ da zà Masina a’ accattari il decotto di ramigna, che è diuretico. Ccà c’è ‘a bottiglia, attenta che se ti cade si rompe.”
Mi vedo bambina scendere le scale di corsa dalla casa dei nonni e tuffarmi in quella strada per arrivare dopo 5 minuti dall’acquaiola. Lei riempie la bottiglia di un’acqua rossiccia, bollente e dopo avermi raccomandato di non far cadere la bottiglia, ritorno velocemente a casa. Mia mamma la versa in bicchieri di vetro e ne dà a me ed anche alle zie. Un piacevole e caldo sapore mi pervade.
Mi sposto più avanti ancora, sorpasso il panificio di don Ceo D’Angelo ed ecco la “putia” du Zu’ Asparinu, lo scarparo. “E tu ccà sì? Comu sta to’ nonnu?” chiede bruscamente appena mi scorge. Seduto al banchetto, se ne sta tra la porta della bottega e la strada, picchia le scarpe col martello. Canta, tra chiodi e colle, col grembiule di cuoio ed i capelli spelacchiati rossi, tali da meritarsi l’appellativo di “u’ russu”.
Di seguito, uno stabile a tre piani che ben conosco: la casa dei nonni.
“Mariarosa acchiana, sempre in mezzo alla strada stai?“ Mi sgrida la mamma, dal balcone del secondo piano.
Salgo la scala di pietra bianca e l’ampio ballatoio con la ringhiera in ferro del primo piano mi mostra l’uscio di due alloggi. In uno ci abitava ‘Sabella, un donnone dai capelli corvini e arruffati che aveva tanti figli e tanta miseria, nell’altro la za’ Sina, una signora di mezza età, molto distinta, dagli occhi liquidi.
“Veni, veni ccà” t’amparasti a poesia a memoria?” -mi apostrofa - “Ti raccumannu, ‘mparatilla bbona”.
Improvvisamente, davanti a me si concretizza un enorme presepe.
Lei lo allestiva ogni anno per la Novena di Natale, dopo aver svuotato una stanza della sua casa. Invitava tanta gente per la preghiera ed ecco io da piccola che recito in mezzo ai suoi ospiti, la poesia imparata a memoria, ancor prima di aver imparato a leggere.
La za’ Sina aveva adottato una delle numerose figlie della cugina, la za’ Nardina, che abitava al secondo piano, sullo stesso pianerottolo, di rimpetto alla casa dei nonni.
Al terzo piano la famiglia di don Ceo D’Angelo il fornaio e un’altra famiglia numerosa di cui non ricordo il nome.
“Pippina si ‘n casa? Pippinaaaa” dice ad alta voce la zà Nardina, chiamando ripetutamente il nome di mia nonna, mentre bussa forte alla porta d’ingresso, che stava socchiusa, con le chiavi appese alla toppa esterna. “Si si, trasi” risponde la nonna dalla cucina.
Solo allora la za’ Nardina si permette di entrare.
Le porte di queste dimore di giorno rimanevano sempre aperte con le chiavi attaccate alle toppe, venivano chiuse solo la sera.
L’abitazione dei nonni presenta all’ingresso una saletta, alle cui pareti sono addossati due lettini con tanti cuscini, che di giorno fungono da divani, i cui rivestimenti beige a fiorellini rosa erano stati cuciti dalla mamma e dalle zie.
Di sera, le zie tolgono il rivestimento dei lettini e dei cuscini e ne fanno il loro giaciglio.
A sinistra della saletta c’è la camera da letto dei nonni in stile liberty e a destra la sala da pranzo con la cristalliera di faggio, il tavolo allungabile con gli assi di legno e le sedie in paglia di Vienna, anch’essa in stile liberty. A seguire, la cucina con la “balata di marmo” e le tendine rosso scuro per coprire tutta la roba che ci sta sotto ai fornelli ed infine un piccolo bagno con il bacile e la brocca di porcellana, accanto una grossa giara smaltata, piena d’acqua, coperta da una tovaglietta bianca ricamata.
Le pareti bianche, sono dipinte a piccoli fiorellini rosa, con lo stampo.
Quanti ricordi in quella casa mi assalgono, ma volgo le spalle al portone e continuo il mio percorso.
Al piano terra incontro la “putia da Cirinara”. Una donna dai capelli bianchi, chiamata così perché in passato lei o la sua famiglia costruivano i cerini, adesso vende frutta e verdura. Passo davanti lo stagnino, detto “conza piatta e lemma”, perché riesce ad aggiustare pure gli utensili di ceramica, preziosi per le famiglie, ed ecco mi sorride il signor D’Antoni il bombolaro. Sta in piedi appoggiato allo stipite della suo negozio, fornito di bombole e cucine a gas, chiacchiera con i passanti, praticamente li conosce tutti.
Di fronte a lui, sul lato opposto della stretta strada, don Nicola Orfeo, “u custureri” per uomo. Lui sta proprio in mezzo alla strada, tanto passano solo biciclette e, di tanto in tanto, qualche furgoncino. Seduto su una bassa sedia impagliata insieme alle sue giovanissime lavoranti, cuce i vestiti su ordinazione. Il metro attorno al collo, un po’ stempiato, bruno con gli occhi neri. Solo quando piove sta dentro al suo laboratorio di cucito, per il poco spazio che c’è, occupato quasi tutto dal bancone dove taglia le stoffe e dagli scaffali dove le ripone.
“Veni ccà dammi un bacio” - mi dice- “tu nun hai a nesciri d’in casa mia. T’ha fari zita cu me figghiu Micheli. Ti piaci me figghiu Micheli?”.
Nemmeno adesso riesco a dirgli che non mi piaceva Michele, anche se era il mio amichetto di giochi.
A fianco alla sua bottega, il fiore all’occhiello della strada: Palazzo Ciambra (dal nome della famiglia spagnola che ne prese possesso dopo la cacciata degli ebrei) . Lì davanti, una bimba di 5 anni corre per paura del tetro arco che si apre sotto la torre bugnata, da dove passavano le carrozze con i cavalli.
Ma una voce accogliente, “Veni ccà” - m’invita- “trasi, oramai nun poi chiù scantariti di mia”.
Passo sotto il buio arco e spingo il portone come feci, tremante, un tempo.
I miei occhi nella memoria vedono due asinelli che pascolano su un prato enorme che arriva alla via Catito.
A sinistra del prato c’è un giardino, con un carrubo centrale. Sotto l’albero, un prezioso pozzo d’acqua sorgiva e lateralmente una scala di epoca araba.
Al centro dell’edificio, ancora abitato, il portone d’accesso sormontato da un arco ogivale. In alto tre finestre realizzate con conci squadrati, fastosamente abbellite in stile gotico-rinascimentale. Sul prospetto le bugne a punta di diamante.
Il Palazzo risalente al 1300, un tempo ospitava una piccola sinagoga per la lettura del Talmud, oggi presenta un’architettura sui generis, conseguenza dei rifacimenti e del gusto dei secoli. Ma lo stile si può definire plateresco.
Di fronte al palazzo, non credo ai miei occhi, c’è ancora “La Cantina Siciliana”.
Una taverna, un tempo, con delle botti enormi di vino, il cui odore penetrante si riversava lungo la strada. Oggi, davanti a me, ci sta un ristornante, che porta lo stesso nome e che cucina piatti tipici trapanesi, accompagnati da vini locali. Mi assale l’odore pungente dell’aglio nella zuppa di pesce ed il profumo inconfondibile della semola aromatizzata che cuoce per il “cuscusu”.
Sulla stessa fiancata del Palazzo, la “putia” di “Facciatagghiata” che vende il sapone mollo, detersivo esclusivo per l’epoca, adattabile a tutti gli usi.
Più avanti incontro la giovane e bella signorina Trombino, rimagliatrice di calze di nylon, seduta alla macchina da cucito, all’ingresso della sua piccola bottega, che mi sorride.
Qui la strada s’interrompe per un bivio, a sinistra la via Api e a destra la via degli Ebrei.
Nel primo angolo, tra la via Api e la via Giudecca ecco il farmacista Occhipinti, alto e magro, sempre disponibile dietro i suoi occhiali, che praticamente si comporta come il titolare di un pronto soccorso, perché allora piuttosto che dal medico, si andava in farmacia.
Vado un po’ più avanti e dei profumi di cucina mi assalgono. Dai balconi aperti giunge sulla strada l’odore appetitoso delle melanzane fritte, il profumo del basilico nella salsa di pomodoro, lo sfrigolio fumoso dei pesci fritti e l’aroma avvolgente delle patate alla pizzaiola, insieme alla musica di una radio con un volume un po’ più alto del solito e alle voci di donne che parlano tra loro dai balconi.
Sorpasso la farmacia e un cancello arrugginito, chiuso, davanti ad un cortiletto allungato, mi accoglie. Mi fermo, lo rivedo nella memoria molto più grande e possente, aperto. Davanti ad esso una ragazza macrocefala di un’età non decifrabile, ma comunque giovane, seduta su una sedia a rotelle.
La testa, sproporzionata rispetto al corpo, è provvista di una folta chioma riccia e corvina, gli occhi grandi, scuri e malinconici mostrano una capacità di discernimento. Capisce.
Io mi vedo bambina ad osservarla mentre le passo davanti, e, con l’incoscienza e la curiosità dei bambini, guardarla senza pudore.
La ragazza, come un tempo, evita il mio sguardo. Accanto a lei, in piedi, una donna dai capelli brizzolati, la sua mamma, che coraggiosamente tutte le mattine la porta davanti al cancello, sulla strada, perché quella sua figliola potesse assaggiare un po’ di quella vita che le era stata negata.
Sono arrivata ormai alla fine della via.
Un’altra strada la taglia di traverso e la chiude: la via Carrara.
Di fronte a me la bottega del ghiaccio. Entro e chiedo una “rattata”. Una coppia di mezza età, con dei grembiuli neri di cerata, tesi come cartone, gestisce la vendita di lastre di ghiaccio, preziose d’estate, che mettiamo dentro grosse bacinelle di zinco, piene d’acqua, insieme alle bibite e ai cocomeri, per rinfrescarli.
Non ricordo i loro nomi. La signora mi prepara una coppetta di ghiaccio grattugiato e
mi chiede “ Ci lu voi lu sciroppu di menta e di cirasa?” “Certo” le rispondo.
Versa sopra il ghiaccio lo sciroppo di menta e quello di ciliegie e mi porge la coppetta con i colori della bandiera italiana.
Assaggio la “rattata”. Il ghiaccio mi si scioglie rapidamente in bocca, lasciandomi un sapore di menta freschissima.
Niente a che vedere con la granulosa granita di oggi.
Esco dalla bottega, davanti a me si snoda, dal capo opposto, la via Giudecca con le sue luci, i suoi odori e le voci della sua gente.
Di colpo, tutto si spegne.
Non ho più la “rattata” in mano, dietro di me nessuna bottega del ghiaccio; la gente è scomparsa insieme al sole, le saracinesche sono abbassate, i balconi chiusi e le case sembrano vuote.
Gli ottocenteschi lampioni sono accesi, ma la via è buia, spopolata e triste.
Il rumore dei miei tacchi echeggia insieme al miagolio di un gatto che, con la coda alzata e a passi felpati, cerca un portone aperto.
Mi avvio verso Corso Italia, l’arteria che ha preso il posto delle strette e tortuose vie di un tempo, dalle case addossate l’una all’altra.
Vengo risucchiata dalla mia frenetica vita, dal rombo dei motori delle auto, in fila quasi ferme e dall’odore irrespirabile dei gas di scarico.