Presentazione di Giuseppe Abbita, componente della Libera Università “Tito Marrone” di Trapani.
Ieri sera, 15 novembre, in occasione del convegno settimanale della Libera Università "Tito Marrone" di Trapani, Giuseppe Abbita ha presentato il suo studio e lavoro sul siciliano Enrico Onufrio, nato a Palermo il 14 novembre 1858 e morto a soli 26 anni a Monte San Giuliano( Erice). Introdotta dal Presidente Antonino Tobia, la relazione di Abbita su Enrico Onufrio, annoverato fra gli scrittori e poeti minori, ha dato il giusto peso per quello che è stato nella storia della letteratura siciliana ed italiana: scrittore, poeta e giornalista già esponente della “scapigliatura”, movimento di artisti e scrittori che prese piede in Lombardia nella seconda metà del XIX secolo.
Tobia definisce la scapigliatura come un tema scolastico non molto attenzionato e aggiunge sugli autori : “Si definiscono uccelli al tempo di cambiar le piume. Diremmo che sono ricordati per il loro senso di angoscia e per il loro modus vivendi - continua - sono alcolizzati, frequentano prostitute, un movimento rivoluzionario pressoché anarchico che vorrebbe cambiare il mondo.”
Giuseppe Abbita, della Libera Università, ha continuato e ha descritto la vita del nostro letterato, con la partecipazione dell’attore Giovanni Barbera lettore di alcuni brani dello scrittore.
Ci preme sottolineare come Onufrio, nel suo ultimo romanzo “L’ultimo borghese”, fa parlare il protagonista Luciano, deputato parlamentare.
L’ultima parte del romanzo riporta il suo appassionato discorso alla Camera. Spesso egli passava le sue giornate alla Camera, assisteva a tutto quell’agitarsi e scalmanarsi di gente grezza, volgare, senza idee, senza cultura, senza carattere, a tutto quell’irrompere di vanità di cupidigie in quell’urto continuo e violento di interesse, a quella pompa sfacciata di ciarlatanerie, di menzogne, di falsità, e non sapeva reggere davanti a tutto quell’artificio volgare di uomini e di cose, a tutta quella falsa meschinità di parole e di idee. Luciano in piedi davanti il suo banco, in quella grande aula silenziosa dove tanta gente lo ascoltava sentiva traboccare dal suo animo tutto il dolore degli uomini, tutto il dolore delle cose e la voce di tutto quel dolore gli affluiva naturalmente alle labbra: “Signori - disse con voce grave Luciano - io guardo alla grande rovina che incombe sulla borghesia. La borghesia ebbe un principio e avrà una fine. Quando la borghesia si affermò ufficialmente nell’89 ella significava l’ordine, il buonsenso, il lavoro, la rettitudine, la morale. Era troppo grande la sua forza, era troppo grande la sua virtù, ella ne abusò e fu gran male, ne abusò nella filosofia, ne abusò nella religione, ne abusò negli affari, nel lusso nella vita privata e in tutto, e adesso è ricca codesta borghesia, straricca ed è anche grassa, ma la sua è una floscia pinguedine di vecchiaia, a noi manca la fede manca le virtù, noi ci illudiamo troppo intorno a noi stessi, ci illudiamo perché abbiamo il denaro, i libri, le armi, le leggi, l’elettricità, il vapore, ma non riflettiamo sulle nostre infelici condizioni, non crediamo in Dio, non abbiamo fede in un ideale qualsiasi, leggiamo troppo, abbiamo troppo fosforo nel cervello e poco sangue nelle vene.”
Un discorso che fa riflettere per la sua contemporaneità: oggi è come centocinquant’anni fa.